martedì 16 luglio 2013

Malala, l’anafora, il paradosso, l’anticlimax

Una ragazzina vestita di rosa confetto. Ha lo scialle di Benazir Bhutto e un paio di scarpe basse. Parla all’Onu nell’aula magna gremita, davanti a Ban Ki-moon. È il giorno del suo compleanno: appena 16 anni.
È sicura come un’oratrice navigata: ha un foglio davanti ma non legge; concede il suo sguardo a tutti i presenti in sala, senza fissarsi sugli ascoltatori più accondiscendenti; declama ad alta voce, lancia le sue bordate e attende per vedere l’effetto che fanno. E l’effetto c’è, eccome. Il pubblico applaude sempre più frequentemente. Qualcuno – le donne – si asciuga le lacrime.
Nel 2012 i Talebani hanno colpito alla testa questa ragazzina e hanno rivendicato l’attentato, accusandola di essere una “femmina oscena”.
Non è una fanciulla come le altre. Non lo è la sua storia e non lo è il suo eloquio. Lei lo sa, ma non vuole farlo pesare: preferisce apparire come una ragazza qualsiasi, non come un fenomeno della natura. Teme l’effetto Guiness dei primati, che sposterebbe l’attenzione su di lei e sulla performance, lasciando in un angolo dimenticato i contenuti. È per questo che, dopo i ringraziamenti di rito, Malala mette in campo una excusatio propter infimitatem, una voluta diminuzione della sua persona e della sua storia.
“Io sono qui, una ragazza tra tante, e non parlo per me, ma per tutti i bambini e le bambine.”
Segue un classico della retorica: un’anafora, la ripetizione di una parola o di un gruppo di parole all’inizio di frasi successive:
“Voglio far sentire la mia voce non perché posso gridare, ma perché coloro che non l’hanno siano ascoltati. Coloro che lottano per i loro diritti: il diritto di vivere in pace, il diritto di essere trattati con dignità, il diritto di avere pari opportunità e il diritto di ricevere un’istruzione.”
La storia personale della pallottola in testa viene messa in evidenza da un paradosso, una contraddizione voluta:
“I terroristi pensavano che sparando avrebbero cambiato i nostri obiettivi e fermato le nostre ambizioni, ma niente nella mia vita è cambiato tranne questo: la debolezza, la paura e la disperazione sono morte. La forza, il potere e il coraggio sono nati. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Così pure le mie speranze sono le stesse.”
Dal paradosso scaturisce un messaggio d’amore, dal sapore messianico:
“Cari fratelli e sorelle io non sono contro nessuno. Nemmeno contro i terroristi. Non sono qui a parlare in termini di vendetta personale contro i Taliban o qualsiasi altro gruppo terrorista. Sono qui a parlare a favore del diritto all’istruzione di ogni bambino.”
È un messaggio che crea un impatto, perché spiazza l’uditorio che viene trascinato fino al culmine del ragionamento: anche i figli dei Taliban, quelli che le hanno sparato in testa, hanno diritto all’istruzione:
“Io voglio che tutti i figli e le figlie degli estremisti, soprattutto Taliban, ricevano un’istruzione.”
L’uditorio è convinto di essere arrivato al punto più alto dell’emozione. Ma l’oratrice Malala non si ferma, alza l’asticella dei sentimenti con un anticlimax, una scala discendente che porta il ragionamento dalla divina misericordia ultraterrena, all’eroica misericordia terrena, fino all’immensità quotidiana dell’insegnamento dei genitori di una bimba la cui testa è stata perforata dal proiettile di un idiota che pretendeva di conoscere la verità del mondo. Un idiota che invece non sapeva niente di niente.
“Non odio neppure il Taliban che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano ed egli mi stesse davanti e stesse per spararmi, io non sparerei. Questa è la compassione che ho appreso da Mohamed, il profeta misericordioso, da Gesù Cristo e dal Buddha. Questa è il lascito che ho ricevuto da Martin Luther King, Nelson Mandela e Muhammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non-violenza che ho appreso da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che ho imparato da mio padre e da mia madre. Questo è quello che la mia anima mi dice: siate in pace e amatevi l’un l’altro.”
Poi la rivelazione, la verità nel suo splendore: i terroristi terrorizzano perché sono terrorizzati. Terrorizzati dalle donne e dall’istruzione. Che miseria.
“Gli estremisti avevano e hanno paura dell’istruzione, dei libri e delle penne. Hanno paura del potere dell’istruzione. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa. Ed è per questo che hanno appena ucciso a Quetta 14 innocenti studenti di medicina. È per questo che fanno saltare scuole in aria tutti i giorni. È per questo che uccidono i volontari antipolio nel Khyber Pukhtoonkhwa e nelle Fata. Perché hanno avuto e hanno paura del cambiamento, dell’uguaglianza che essa porterebbero nella nostra società. […] I Taliban hanno paura dei libri perché non sanno che cosa c’è scritto dentro”.
Malala affonda il coltello, grazie all’ironia. Si prende gioco dei Taliban, facendoli apparire ridicoli:
“Pensano che Dio sia un piccolo essere conservatore che manderebbe le bambine all’inferno soltanto perché vogliono andare a scuola.”
L’explicit – il finale – è fortissimo. Malala lo declama con un dito alzato, guardando negli occhi il mondo intero. È potente perché non perde il focus del discorso. Rimane incollata alla tesi iniziale: l’istruzione che salva la vita:
“Queste sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo.”
Grande Malala, la ragazzina vestita di rosa confetto.



martedì 9 luglio 2013

Dov’è tuo fratello? È morto in mare. Francesco ci ricorda che Caino siamo noi

Potente, potentissimo papa Francesco, nella omelia di Lampedusa. Potente perché ha sussurrato nell’orecchio di tutti noi: uno per uno.

Ci ha detto che non ci possiamo chiamare fuori. Che, se 20 mila persone sono morte nel Mediterraneo, è anche colpa nostra. Sì, colpa nostra. Dove eravamo? Perché non abbiamo detto niente? Perché abbiamo lasciato che succedesse? Perché?

Ma andiamo alle parole del papa. Francesco inizia con la preghiera, la più semplice, la più umile: un papa che chiede “per favore”. La scelta linguistica impone un ribaltamento dei ruoli. Non sono i fedeli a implorare il pontefice, è il contrario.

“Immigrati morti in mare […]. Non si ripeta per favore.”

Segue il saluto ai Musulmani in lampedusano: o scià, che significa “fiato mio”, “respiro mio”. Le due culture si fondono. Grazie a una frase, diventano una. Non più “noi” isolani e “loro” che fastidiosamente spuntano dal mare, ma “noi tutti”: uomini, donne e bambini del mondo.

“Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’scià!”

Poi la bordata, resa solo un po’ meno violenta dall’uso del “noi”. Francesco non si tira fuori, include se stesso nella schiera dei peccatori:

“Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri.”

Il riferimento a Caino e Abele della Genesi è devastante. Caino non è lo straniero che viene dal mare, Caino siamo noi. E Dio, sussurrando al nostro orecchio, ci mette alla strette chiedendo a ognuno di noi dov’è finito nostro fratello.

“Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?».”

Segue una metafora tratta dalla vita quotidiana: la bolla di sapone. È apparentemente innocua, piacevole; ma introduce un’altra bordata.

“La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”

Cosa potevamo fare? Come potevamo intervenire? Ci chiediamo annichiliti. Francesco non ci lascia scampo. Potevamo esprimere il nostro solidale dolore con un atto semplice e primordiale: il pianto.

“Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”

«Sono forse io il guardiano di mio fratello?» chiede Caino al Signore. La risposta è sì. Ce lo ricorda Francesco.


Testo integrale dell’Omelia di Papa Francesco a Lampedusa, 8 luglio 2013: