mercoledì 30 maggio 2012

Monti bestemmia: niente panem, niente circenses

Il “panem” era stato già preso di mira dalle misure anti crisi. È ora il turno dei “circenses”, i giochi del circo.

È quanto emerge dalla dichiarazione di ieri del premier Monti a commento dello scandalo del calcio scommesse.

«Non sto facendo una proposta e men che meno una proposta che viene dal governo, ma e' un desiderio che qualche volta io - che pure sono stato molto appassionato di calcio tanti anni fa - dentro di me sento: se per due o tre anni per caso non gioverebbe molto alla maturazione di noi cittadini italiani una totale sospensione di questo gioco».

È chiaramente una provocazione, uno sfogo personale in una giornata difficile. Immediate le razioni del web che propone la sospensione della politica a causa della corruzione dei suoi protagonisti. Buona argomentazione. Non fa una piega ed è costruita con maggiore arguzia della protesta rancorosa di Giancarlo Zamparini, presidente del Palermo:
«L’unica cosa indegna di questo Paese è che uno come Monti osi dire queste cose, l’unica persona indegna è lui che ci sta massacrando».
Dalla vicenda si apprende una lezione, forse scontata, ma pur sempre una lezione: in Italia dire “porco calcio” è una bestemmia. Anche se il calcio si è dimostrato più volte… porco. Ecco, l’ho detto.

giovedì 24 maggio 2012

Messaggio di pace in parole guerriere. È la forza di Gandhi nel discorso del 1947 a New Dehli

Gandhi, il “fachiro seminudo” - come lo definì Churchill non senza una vena varicosa di razzismo - ha fatto della sua immagine essenziale un'icona riconosciuta in tutto il mondo. Ma il suo eloquio non era altrettanto scarno e privo di dettagli.

Ne è una prova il discorso tenuto nel 1947 alla Conferenza Interasiatica di New Dehli, riportato nella collana di dvd "Le parole che hanno cambiato il mondo" del Corriere della sera, dove il Mahatma - "la grande anima" - dà prova della sua abilità oratoria e della sua determinazione.

Fin dal principio, il tono è dimesso. Ma i contenuti sono taglienti. Gandhi dichiara che vorrebbe parlare la sua lingua, l'hindustani, ma sa che solo pochi possono capirla. In questo modo, esprime pubblicamente la frustrazione di un popolo colonizzato:

«Vi stavo dicendo che la lingua della mia provincia, che è la mia lingua madre, voi non potete capirla; e io non voglio insultarvi insistendo. La lingua nazionale, l’hindustani, so che ci vorrà molto tempo prima che possa competere nei discorsi ufficiali.»*

Poi, Gandhi diluisce la polemica, mettendo in campo una excusatio propter infirmitatem, un espediente attira-simpatia più volte affrontato in questo blog. Si dichiara inadatto al compito di oratore che gli è stato affidato. Ma è solo una formula di cortesia che prelude alla bordata:

«Mi chiedevo di cosa avrei dovuto parlarvi. Volevo raccogliere i miei pensieri, ma lasciatemi confessare che non ho avuto tempo, eppure vi avevo promesso ieri che avrei provato a dirvi qualche parola. Mentre venivo con Badshah Khan*, ho chiesto un piccolo pezzo di carta e una matita. Ho avuto una penna al posto della matita. Ho provato a scarabocchiare qualche parola. Vi spiacerà sentirmi dire che quel pezzo di carta non ce l’ho con me. Ma non importa, mi ricordo di cosa volevo parlarvi   (...).»

Dopo questa dimostrazione di ritrosia, il Mahatma affonda il coltello senza pietà, infierendo sul colonialismo culturale e politico dell'Occidente. Denuncia l'appropriazione indebita dei pilastri della spiritualità, ribaltando il punto di vista comunemente accettato. L'obiettivo è spiazzare l'uditorio:

«Io ho studiato dai libri, libri scritti dagli storici inglesi [...]. Ci dicono che la saggezza è arrivata all'Occidente dall'Oriente. E chi erano questi uomini saggi? Zoroastro [Zarathustra]. Lui apparteneva all'Oriente. È stato seguito da Buddha. Apparteneva all'Oriente, apparteneva all'India. Chi ha seguito Buddha? Gesù, ancora una volta dall'Asia. Prima di Gesù c'era Mosè, anche lui appartenente alla Palestina - ho controllato con Badshah Khan e Yunus Saheb, ed entrambi mi hanno confermato che Mosè apparteneva alla Palestina, nonostante fosse nato in Egitto. E poi è venuto Gesù, e poi è venuto Maometto. Questi li tralascio. Tralascio Krishna, tralascio Mahavir, tralascio le altre luci, non le chiamerò luci minori, ma sconosciute all'Occidente, sconosciute al mondo della letteratura.»


Ghandi abbandona ogni riserva e colpisce al cuore l'Occidente. Lo fa con la grazia che tutti conosciamo - si scusa - ma non esita ad affondare il coltello:

«E poi, cosa è successo? Il cristianesimo è stato sfigurato quando ha raggiunto l'Occidente. Mi dispiace doverlo dire, ma questa è la mia interpretazione.»

«Sfigurato» (desfigured). Nell'immaginario romantico che si è creato intorno al personaggio di Gandhi non ci si aspetta che potesse utilizzare parole tanto affilate.

Tanta risolutezza viene lievemente diluita dalla ripresa della excusatio propter infirmitatem («il mio povero discorso») che prelude, tuttavia, a un nuovo attacco:

«il mio povero discorso può farvi capire, che quello che vedete dello splendore e di tutto ciò che le città dell'India hanno da mostrarvi non è l'India.»

Arriva, infine, al punto culminante dell’allocuzioe, al concetto chiave che viene reso tangibile, chiaro, lampante per tutti attraverso la metafora degli occhiali.

«Ma quello che voglio che capiate, se potete, è che il messaggio dell'Oriente, il messaggio dell’Asia, non può essere imparato attraverso gli occhiali europei, attraverso gli occhiali occidentali; non può essere compreso imitando gli orpelli dell'Occidente, la polvere da sparo dell'Occidente, la bomba atomica dell'Occidente.
Se volete nuovamente dare un messaggio all'Occidente, deve essere un messaggio d’amore, deve essere un messaggio di verità.»

Scoppiano gli applausi dell’uditorio. Ma Gandhi di schernisce, li rifiuta. Ora non è più interessato alla dimostrazione della benevolenza del pubblico perché lo ha già conquistato.

«Per favore questo [l’applauso] interferirà con il mio discorso e anche con la vostra comprensione. Voglio catturare i vostri cuori, non ricevere i vostri applausi. Fate battere i vostri cuori all'unisono con quello che dico e, credo, avrò compiuto il mio lavoro. Perciò voglio che ve ne andiate da qui con il pensiero che l'Asia deve conquistare l'Occidente.»

Il discorso si conclude con un ossimoro, un'apparente contraddizione: «la conquista amabile». Geniale.

«Sono ottimista. Se metterete insieme i vostri cuori, non soltanto le vostre teste, ma i vostri cuori insieme e capirete il segreto del messaggio che questi uomini saggi dell'Oriente ci hanno lasciato, e che se noi davvero diventiamo, meritiamo e siamo degni di quel grande messaggio, allora capirete che la conquista dell'Occidente sarà completa, e che lo stesso Occidente amerà quella conquista.
Oggi l'Occidente è così carente in saggezza. Oggi l'Occidente è disperato per la proliferazione della bomba atomica, perché la proliferazione delle bombe atomiche significa distruzione completa, non soltanto dell'Occidente, ma del mondo intero, così che la profezia della Bibbia si avvererà e ci sarà un vero e proprio diluvio universale. Non voglia il cielo che ci sia quel diluvio, e non per i torti dell'uomo contro se stesso. Sta a voi liberare il mondo intero, non solo l'Asia, ma il mondo intero, da quella malvagità, da quel peccato. Questa è la preziosa eredità che i vostri maestri, i miei maestri ci hanno lasciato.»

*Khan Abdul Ghaffar Khan (1890 - 1988), pacifista, attivista e amico di Gandhi.

lunedì 21 maggio 2012

«loro non vogliono cambiare loro»: è il grido di dolore di Rosaria Schifani, vent’anni fa, al funerale del marito Vito e del giudice Falcone

Sono passati vent’anni dal 23 maggio 1992, il giorno dell’omicidio del giudice Giovanni Falcone; di sua moglie Francesca Morvillo; degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Ai funerali a Palermo, il 25 maggio, una ragazza sfida le consuetudini, il cerimoniale e la mafia stessa con parole fuori programma, estemporanee, lucidamente fuori controllo. È Rosaria Schifani, moglie dell’agente della scorta Vito. Ha 22 anni e un bambino di quattro mesi.

Nel suo breve discorso invoca giustizia immediata; sfida gli uomini di mafia, chiedendo loro di inginocchiarsi e pentirsi; dichiara con coraggio che i mafiosi sono lì presenti, nella stessa chiesa dove si stanno svolgendo i funerali.

L’incipit del discorso è oggettivo, solenne e perentorio: un enunciato che ha valore di assolutezza e di eternità. Una testimonianza storica, che recita:

«Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…».

Il discorso è scritto su un foglio posato su un leggio. Un sacerdote tiene il microfono. Rosaria legge.

Ma qualcosa comincia a uscire dalla maglia fitta del testo preparato. All’inizio è un piccolo foro, un sussulto timido, detto tra sé e sé («Vito mio»); poi diventa uno strappo; infine un varco da cui la verità esplode in faccia all’uditorio.

Le parole già scritte – opportune ma di circostanza – appaiono fasulle.
Sbiadiscono, sfumano, tacciono.

Ecco, allora, che inizia a emergere la Rosaria autentica, con i suoi pensieri, le sue angosce e i suoi giudizi:

«Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato – lo Stato… – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso».

L’inciso «lo Stato» viene pronunciato con un tono di disapprovazione, di rassegnazione, un sottilissimo sarcasmo.

Rosaria continua:

«[…] chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano [pausa, il sacerdote al fianco di Rosaria Schifani suggerisce: “se avete il coraggio…”] di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare, loro [applauso]».

Si sono rotti gli argini e la verità dilaga. Una verità disarticolata, frutto di uno stato quasi di trance, ma non per questo meno vera. Una verità che imbarazza chi è abituato alla cultura del decoro. Una verità che colpisce nel segno per la purezza fanciullesca con la quale viene proferita. Una verità che travolge il cerimoniale, contrapponendo il dire selvaggio della profezia biblica al rito solenne ma abitudinario.

Fanciullesca è la ripetizione di «però» e «loro» all’inizio e alla fine della frase: «però vi dovete mettere in ginocchio, però»; «loro non vogliono cambiare, loro».

Malgrado il tratto infantile, non c’è nulla d’ingenuo in queste parole. Nulla che possa far guardare questa donna con superiorità e indulgenza, attribuendo lo sfogo alla disperazione di una povera vedova che domani nessuno ricorderà.

Prosegue una lettura mista a singhiozzi e a osservazioni personali:

«Loro non cambiano, loro non cambiano… No. Aspetta, aspetta, no [Rosaria Schifani si rivolge al sacerdote che l’invita a seguire il testo scritto]. Di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete».

Il sacerdote ripetutamente invita Rosaria ad attenersi al testo scritto. La donna, invece, si sofferma su alcune parole dall’alto potere simbolico e drammatico. Tra queste la parola «sangue», ripetuta quattro volte:

«Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non lo sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo [pianto] che avete reso questa città sangue, città di sangue [Rosaria Schifani parla con il sacerdote ma, nella registrazione, le parole non si sentono]. Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue – troppo sangue – di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti.
Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente».

Questo è il testo completo:

«Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato – lo Stato… – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano [pausa, il sacerdote al fianco di Rosaria Schifani suggerisce: «se avete il coraggio…»] di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare loro [applauso].
Loro non cambiano, loro non cambiano… No. Aspetta, aspetta, no [Rosaria
Schifani si rivolge al sacerdote che l’invita a seguire il testo scritto]. Di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete.
Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non lo sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo [pianto] che avete reso questa città sangue, città di sangue [Rosaria Schifani parla con il sacerdote].
Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue – troppo sangue – di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente.»

lunedì 7 maggio 2012

Ich bin ein Berliner. La preghiera di Kennedy per la libertà

Sono in viaggio di lavoro in giro per il Sud America e posso seguire con difficoltà i discorsi più o meno potenti di casa nostra. Ne approfitto per una pausa salutare e per rispolverare qualche super classico dell'oratoria. La collana di Dvd "Le parole che hanno cambiato il mondo", in edicola in questi giorni con il Corriere della sera, ha riproposto il discorso pronunciato da John F. Kennedy nel giugno del 1963 a Berlino Ovest, in piena della Guerra Fredda. Un'allocuzione passata alla storia per una frase chiave che il presidente Usa dice in tedesco, incastonandola in un discorso pronunciato in inglese: «Ich bin ein Berliner», "Sono un berlinese". Quanta retorica in questa fase. E di quella buona! Le arguzie linguistiche e stilistiche si sommano offrendo all'uditorio vari livelli di comprensione e coinvolgimento. Non è affatto scontato che il pubblico li individui tutti. Anzi, questo non avviene quasi mai, ciò malgrado ne riesce ad apprezzare lo spessore e la portata. Innanzitutto Kennedy mette in campo una captatio benevolentiae. Forse banale, ma sempre un cavallo di battaglia. Noi tutti proviamo gratitudine per lo straniero che si sforza di parlare la lingua locale. Lo sanno bene le pop e le rock star che, nei concerti, cercano di pronunciare qualche frasetta nella lingua indigena. Sembra che la Pausini sia un'esperta assoluta nel campo. Poi, il presidente Usa si sofferma sulla spiegazione del significato della frase, in puro stile divulgativo made in Usa, che mira alla comprensione anche dei più disattenti o dei più impermeabili alle profondità della lingua: «Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire "civis Romanus sum" oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire "Ich bin ein Berliner".» In chiusura Kennedy torna sul punto, non vuole che a nessuno sfugga il concetto. Tutti, proprio tutti, devono comprendere cosa intende dire: «Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire "Ich bin ein Berliner".» Ecco un altro livello: essere berlinesi come metafora di libertà. Non manca una liturgia: l'iterazione di una frase gemella, benché eterozigote, di «Ich bin ein Berliner»: «Che vengano a Berlino.» È la risposta ai sostenitori del comunismo, dei quali Kennedy rievoca e smonta le argomentazioni, formando quattro coppie: Coppia uno. «Ci sono molte persone al mondo che veramente non capiscono, o dicono di non capire, quale sia il grande elemento di differenza tra il mondo libero e quello comunista. Che vengano a Berlino.» Coppia due. «Ce ne sono alcune che dicono che il comunismo è l'onda del futuro. Che vengano a Berlino.» Coppia tre. «E ce ne sono alcune che, in Europa come altrove, dicono che possiamo collaborare con i comunisti. Che vengano a Berlino.» Coppia quattro. «E ce ne sono anche certe che dicono che è vero che il comunismo è un sistema malvagio, ma che permette di ottenere il progresso economico. Che vengano a Berlino.» È il meccanismo che coloro che vanno a messa conoscono bene: «Cristo pietà, Signore pietà». Saluti da Bogotà.

mercoledì 2 maggio 2012

Su richiesta, l’analisi del discorso di Steve Jobs in difesa dell’iPhone 4

Roberto Accomando ha chiesto a Discorsi potenti l’analisi dell’allocuzione tenuta da Steve Jobs in occasione del caso Antennagate, la crisi che la Apple ha dovuto affrontare nel 2010 a causa dei problemi di ricezione dell’iPhone 4. video

Vediamo quali sono gli ingredienti del discorso.

Cattura la nostra attenzione un espediente dell’arte retorica classica: una excusatio propter infirmitatem. Si tratta di una strategia linguistica che abbiamo trattato più volte in questo blog. Funziona così: l’oratore dichiara esplicitamente la propria inadeguatezza di fronte al pubblico, per catturarne la simpatia.

«You know, we are not perfect. We know that, you know that. And our phones aren’t perfect either.»

(Sapete, non siamo perfetti. Lo sappiamo e lo sapete anche voi. E neanche i nostri telefoni non sono perfetti.)

Successivamente, Jobs mette in pratica le tecniche argomentative di gestione della comunicazione in caso di crisi che si ritrovano nei manuali americani. Le riassumiamo, riportando – di volta in volta - il relativo passaggio.

1. Dimostrare attenzione nei confronti del consumatore.

«But we wanna make all our users happy.»

(Ma vogliamo rendere felici tutti i nostri fruitori.)

2. Ammettere il problema e circoscriverlo, non perdendo l’occasione di sottolineare il proprio primato.

«However we started getting some reports of people having issues with the antenna system, which is a very advanced new antenna system […]. It doesn’t seem like a good thing.»

(Comunque abbiamo cominciato ad avere alcune informazioni di persone che hanno problemi con l’antenna, che è un sistema molto avanzato[…]. Non è una cosa positiva.)

3. Allargare il problema, dimostrando che riguarda anche i concorrenti.

«Well it comes out it’s certainly not unique to the iPhone 4. [Steve Jobs chiama in causa Motorola e Nokia]»

(Beh, è venuto fuori che non si tratta solo di un problema dell’iPhone 4.)

4. Delineare i confini del problema per contenrne la portata, gettando un sottile discredito su chi lo ha gonfiato.

«But I think it’s important to understand the scope of this problem […] this has been blown so out of proportion. It’s incredible.»

(Ma penso sia importante comprendere la portata del problema […] è stato gonfiato ben oltre le sue reali dimensioni. È incredibile.)

Qui il tono di Steve Jobs è severo, quasi adirato come quello di un parroco che denuncia la dilagante deriva dei costumi nella propria comunità.

5. Dimostrare comprensione per i detrattori e la volontà di andare incontro ai consumatori.  

«So, let me tell you what we gonna do [pausa teatrale]. The first thing we did yesterday, we released IOS 4.0.1 [accompagna queste parole con un gesto del braccio, come un direttore d’orchestra che dà il via a un coro].»

(Ora, lasciatemi dire cosa faremo. La prima cosa che abbiamo fatto ieri è stata quella di lanciare il nuovo IOS 4.0.1.)

Qui Jobs è astuto, perché presenta un’iniziativa già attuata. Evita, in questo modo, di parlare al futuro - “diremo”, “faremo” - dando un’impressione di concretezza.

6. Espiare la propria colpa auto infliggendosi pubblicamente una pena.

«[…] a lot of people told us that bumper solve the signal problem. […]. Why don’t you give everybody a case. [allarga le braccia e assume un’espressione sarcastica da papà cui il figlio che va male a scuola ha chiesto di avere un nuovo zaino per avere voti migliori]. Ok, great. Let’s give everybody a case.»

([…] un sacco di gente ci ha detto che i bumper [bumper case: una sorta di custodia con l’elastico, gli esperti di cellulari mi aiutino a trovare una traduzione migliore!]. Perché non date a tutti una custodia? Va bene, ottimo. Daremo a tutti una custodia.)

Il tono di Jobs è quasi sarcastico. Si auto infligge una pena ma non mostra alcun senso di colpa, anzi sembra essere quasi seccato. Da colpevole diventa parte lesa, da carnefice a vittima. Sembra quasi un martire che, magnanimo, che viene incontro al suo aguzzino.

Invito coloro che hanno un discorso del cuore - o una particolare curiosità su un discorso, una frase, una battuta - a mettermi alla prova, chiedendomene l’analisi. Vi aspetto: trupia@professionistiliberi.it