mercoledì 26 febbraio 2014

Renzi, il nuovo è il messaggio

Il premier Renzi ha fatto del nuovo la sua bandiera, tanto da trasformarlo in un vero e proprio topos letterario, un motivo ricorrente della sua narrazione, un cavallo di battaglia. Lo ha confermato lunedì 24 febbraio nel suo discorso al Senato e agli italiani speranzosi che il nuovo si possa tradurre ben presto in più lavoro e meno tasse.

Tutto sa di nuovo: la squadra di Governo giovane e rosa, l’atteggiamento informale delle mani in tasca ma, soprattutto, il discorso a braccio. Per la prima volta un presidente del Consiglio ha il coraggio di chiedere la fiducia basandosi solo su qualche appunto scritto a penna. Una scelta che è stata molto criticata, ma che certamente dimostra coraggio, padronanza e una prodigiosa capacità oratoria. Sì, anche gli scettici (e gli invidiosi?) lo devono ammettere. Renzi sa parlare, e di brutto.

Dopo i saluti e i ringraziamenti di rito, il premier si serve di un altro topos letterario: il sogno di un mondo migliore che resiste, malgrado siamo costretti a vivere in un tempo di “grande difficoltà, di struggenti responsabilità”.

“[…] di fronte all'ampiezza di questa sfida, abbiamo la necessità di recuperare il coraggio, il gusto e, per qualche aspetto, anche il piacere di provare a fare dei sogni più grandi rispetto a quelli che abbiamo svolto sino ad oggi e contemporaneamente accompagnarli da una concretezza puntuale, precisa.”

Non si fa aspettare il topos più importante nella retorica renziana: il nuovo. Il premier non perde occasione per sottolineare la sua giovane età, citando una canzone di Gigliola Cinquetti.

“Riflettevo stamattina sul fatto che io non ho l'età per sedere nel Senato della Repubblica. Non vorrei iniziare con una citazione colta e straordinaria della pur bravissima Gigliola Cinquetti, ma è così: non ho l'età.”

Lo stesso topos viene sottolineato anche in negativo. Il nuovo spazza via il “vecchio”. È la sua natura.

“[…] vorrei essere l'ultimo Presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest'Aula.”

In un discorso al Paese non può mancare una captatio benevolentiae, una strizzata d’occhio a coloro che sono fuori dall’aula, ai cittadini che hanno la netta sensazione che le decisioni vengano sempre prese sopra la loro testa, salvo poi chiedere loro di pagare il conto quando le cose vanno male. Il concetto viene supportato da una doppia paronomasia, una figura retorica che accosta parole che hanno una somiglianza fonica ma un significato diverso: mercati rionali - mercati finanziari; Paese finito – Paese infinito.

“Tuttavia, non possiamo non partire da un giudizio reale su ciò che sta fuori da queste Aule. Se in questi anni avessimo prestato ai mercati rionali lo stesso ascolto che abbiamo prestato ai mercati finanziari, ci saremmo accorti che la prima richiesta è la richiesta di semplicità, di pace, di chiarezza; è la richiesta di una tregua della politica rispetto ai cittadini. L'impressione che invece abbiamo dato è quella di un'angoscia nel rapporto tra politici e cittadini, per i quali l'idea che oggi è forte nel Paese è che l'Italia abbia già finito tutto il futuro che aveva, che l'Italia abbia esaurito le sue carte e che sia un Paese finito, più che un Paese infinito.”

Il concetto, viene supportato da un paradosso, un’affermazione contraria al senso comune: i cittadini sono “più avanti” rispetto ai politici; sono i politici a doverli rincorrere, a dover accettare di farsi condurre.

“Bene, noi abbiamo accelerato e deciso di cambiare l'impostazione del Governo nelle forze politiche che lo sostengono perché pensiamo che fuori di qui ci sia un'Italia viva, brillante e curiosa; un'Italia che, nell'aspettarci fuori da questi Palazzi, si vuole bene e che ci tiene a presentarsi bene. Un'Italia che non ci segue per un motivo: perché è avanti a noi. È avanti a noi: siamo noi a doverla rincorrere e doverla recuperare. È l'Italia che forse si sta stancando di aspettarci, e vi propongo, vi proponiamo, come Governo, di fare di tutto per raggiungerla attraverso un pacchetto di riforme che parta e consideri il semestre europeo come la principale opportunità, che affronti prima del semestre europeo le scelte legate alle politiche sul lavoro, sul fisco, sulla pubblica amministrazione, sulla giustizia, che metta al centro il valore della scuola, ma che parta naturalmente dalle riforme costituzionali, istituzionali ed elettorali, sulle quali si è registrato un accordo che va oltre la maggioranza che sostiene questo Governo, e per il quale noi non possiamo che dire che gli accordi li rispetteremo nei tempi e nelle modalità prestabilite.”

Nel discorso del premier colpisce un’ammissione. Renzi sconta pubblicamente il suo peccato originale: non avere un “chiaro mandato elettorale”.

“Avrei preferito che questo passaggio fosse stato preceduto da un chiaro mandato elettorale.”

Il discorso continua con il desiderio di manutenere una parola, ripristinando la nobiltà del suo significato. È il sostantivo “politica”. Renzi rivendica di essere a capo di un Governo politico, non tecnico.

“Non vi sorprenderà il fatto che in questo Governo sono rappresentati i segretari dei maggiori partiti, perché questo è un Governo politico e noi pensiamo che la parola "politica" non sia una parolaccia. Noi pensiamo di poter andare nelle piazze a dire che la politica che noi abbiamo in testa è reale, vera e precisa.”

Verso la conclusione, emerge un colpo da maestro: l’attacco all’Italia piagnona.
“L'idea che il futuro dell'Italia non sia quello di essere il fanalino di coda dell'Europa, che il futuro dell'Italia non sia stare a lamentarsi e piangere dalla mattina alla sera, che il futuro dell'Italia non sia semplicemente raccontarci come le cose vanno male o perché non ci fanno lavorare.”

Ricorda la geniale Lezione sul coraggio di Oscar Farinetti, amico e sostenitore di Renzi.

“Secondo me tutti noi nella vita, a parte le grandi sventure legate alla salute, abbiamo un 50% di eventi sfigati e un 50% di eventi fortunati. Il saldo è questo. Ci dividiamo in due grandi categorie: chi ricorda e memorizza le sfighe e le racconta, chi ricorda e memorizza le fortune e le racconta. Fortunatamente la maggioranza racconta le sfighe. E sapete perché? Perché si cerca consolazione e si ottiene consolazione. […] La consolazione è un appagamento interiore che diventa come una droga. […] Man mano che sei consolato diventi sempre più sfigato e racconti le tue disgrazie. […] Però, quando dobbiamo fare una società, quando dobbiamo andare in vacanza, quando dobbiamo uscire la sera a cena, quando dobbiamo sposarci, chi cerchiamo? Mica gli sfigati. Cerchiamo i fortunati. Quelli che noi riteniamo essere fortunati. Quindi conviene essere fortunati.»

Tornando al discorso di Matteo Renzi, appare con decisione un altro topos: il coraggio. Matteo ha fatto di questa virtù un suo tratto distintivo. Il 24 febbraio ha offerto il suo petto, trasformandosi in eroe: “Se perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia”. Al topos del coraggio, Renzi affida l’explicit del discorso.

“Noi abbiamo una sola occasione: è questa. E noi vi diciamo, guardandovi negli occhi, che se dovessimo perdere, non cercheremmo alibi. Se perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia. Deve finire infatti il tempo in cui chi va nei palazzi del potere, poi, tutte le volte trova una scusa. Non ci sono più alibi per nessuno e primo per me.”
“Noi siamo assolutamente certi che, mettendo tutti noi stessi in questa sfida, la possibilità di cambiare è reale, concreta e immediata, purché ciascuno di noi viva il futuro non come un'incognita e purché ciascuno di noi sappia che è il tempo del coraggio e che questo tempo del coraggio non esclude nessuno e non lascia alibi a nessuno.”


È il tempo di Matteo. Tutti noi speriamo di cuore che lo sappia usare.

giovedì 13 febbraio 2014

Enrico Letta a Palazzo Chigi: quel “non detto” anti Renzi

Il fuoco peggiore è il fuoco amico. Enrico Letta, ieri a Palazzo Chigi, ha dimostrato di voler lottare fino all’ultimo contro il nemico interno Matteo Renzi.

Prima, con un eufemismo, ha definito “franco e sincero” l’incontro con il suo antagonista nel quale, presumibilmente, ci sarà stata una tensione da tagliare con il coltello.

Poi, a Palazzo Chigi, ha portato la sua argomentazione chiave: la schiettezza sulle proprie mire come forma di rispetto nei confronti delle Istituzioni. Il presupposto implicito, il non detto, è: chi trama non ha rispetto per le Istituzioni e per il Paese, non vi fidate. Ora frega me, domani toccherà a voi.
“Ieri sera mi hanno chiamato diversi vostri colleghi [giornalisti] per chiedere… Giravano voci di… Ma le dimissioni non si danno per dicerie, per manovre di Palazzo, perché un retroscena dice questo. Io penso che il rispetto nei confronti delle istituzioni voglia dire che ognuno debba pronunciarsi esplicitamente. Ognuno deve dire che cosa vuol fare. Mi verrebbe da dire soprattutto chi vuole venire qui al posto mio deve dire che cosa vuol fare. […] Ognuno di noi deve giocare assolutamente a carte scoperte.”

Il premier ha anche ostentato il distacco di chi ha giocato la sua partita con correttezza. Anche in questo caso c’è una presupposizione, un non detto: Renzi, l’antagonista, non dimostrato lealtà. Il concetto viene tradotto con un linguaggio tipico della generazione dei quarantenni, condendosi con “hashtag” e “Zen”.
“L'hashtag potrebbe essere 'IoSonoSereno, anzi zen' mi verrebbe da dire. Se mi andasse male questa vicenda penso che potrei andare in qualsiasi posto a insegnare pratiche zen".


Letta continuerà con lo stile del non detto? Aspettiamo gli sviluppi in streaming