La battaglia
sulla riforma della scuola si combatte anche a colpi di figure retoriche. Matteo
Renzi, in versione maestro Manzi, spiega la “buona scuola” riportandone i punti
principali su una lavagna. Una lavagna vera. Niente slide, questa volta. Scelta stucchevole, quella della lavagna, ma sempre meglio del power point.
Con una sprezzatura degna di Baldassarre Castiglione, ostenta
pacatezza e distacco su uno dei temi più discussi di questa legislatura. Il
premier non si mostra turbato dai boicottaggi, dalle accuse e dagli “scioperoni”
che hanno caratterizzato questi ultimi giorni di protesta. Ribalta il punto di
vista. Il negativo diventa positivo:
“In realtà io sono
proprio contento del fatto che, finalmente, la scuola sia al centro della
discussione”
Segue un
classico della comunicazione politica: il paradosso del
comunicatore che non comunica. Insomma, la vecchia storia del ciabattino con le
scarpe rotte:
“Probabilmente abbiamo
sbagliato anche noi alcuni messaggi di comunicazione”
Poi, un
altro classico. Un’anafora, la ripetizione di una parola all’inizio
di frasi o versi successivi. La ripetizione della parola “superpotenza”, porta
dritto dritto a un’inventio: l’Italia deve diventare (o tornare a
essere) una superpotenza culturale. Non male.
“L’Italia non sarà mai
la superpotenza demografica, la superpotenza geografica, la superpotenza diplomatica.
Può essere una superpotenza culturale”
(il premier si guarda bene dal menzionare la superpotenza economica).
Il dato sul
Pil in cresita, invece, non viene sbandierato con fierezza, ma buttato lì come se
non fosse importante. Come se non fosse un vero risultato senza la riforma
della scuola.
“Oggi noi abbiamo
avuto finalmente, dopo una dozzina di trimestri, il segno + al Pil: +0,3%. Ma
non servirà a niente tornare a crescere nelle statistiche se non torniamo a
crescere nelle scuole”
Ed eccola
che arriva: la metalepsi,
passaggio obbligato dello stile oratorio ispirato agli Usa. Una figura che
favorisce la trasposizione dai valori generali ai fatti.
“Intendiamoci, la buona
scuola c’è già in Italia. È la professoressa che, nonostante il controsoffitto
o le difficoltà della banda larga, insegna ai ragazzi ad allargare il cuore con
una poesia. È l’insegnante di musica che fa un’orchestra in una scuola di
periferia. È la grande professionalità di chi riesce, anche in laboratori
scalcinati, a far sperimentare ai ragazzi il gusto della ricerca, della
curiosità”
Altra
operazione oratoria magistrale di Renzi è prendere le distanze dalla parola “riforma”,
che ultimamente sta assumendo un’accezione negativa. La “riforma” viene così
trasformata in qualcosa che sembra innocuo: “alcuni punti”.
“Non chiamiamola ‘riforma’
che non ne possiamo più. Sono alcuni punti, concreti, puntuali, specifici di
cui vorrei discutere insieme a voi.
Infine, un’enumerazione costruita
secondo la sequenza soluzione–problema o problema-soluzione. Mentre parla, Renzi
scrive le parola chiave sulla lavagna:
1. Alternanza scuola-lavoro [soluzione] – come risposta alla disoccupazione giovanile [problema].
2. Più cultura umanistica [soluzione] –
come risposta all’esigenza di educare “un cittadino” non solo un lavoratore [problema].
3. Insegnanti poco pagati [problema]
-Più soldi agli insegnanti, anche sulla base del merito [soluzione], che – precisa Renzi
– non è una parolaccia.
4. Autonomia scolastica [soluzione]
– come risposta alle diverse esigenze delle scuole italiane che operano in contesti
molto diversi [problema].
Renzi fa l’esempio di Trieste e Scampia.
5. Azione educativa spezzettata “tra
supplenti e contro supplenti” [problema] - Assunzione di più di 100 mila insegnanti
precari [soluzione].
Si può
essere o non essere d’accordo con la riforma della scuola di Renzi, ma la
capacità oratoria del premier è fuori discussione. E senza saper parlare, come
diceva Olivier Reboul, “si destinano alla sconfitta anche le migliori cause”. La
storia ci dirà se la “buona scuola” rientra tra queste.
FT
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