lunedì 13 maggio 2013

Letta e la felicità del dire; Boccassini e l’infelicità del dire


“Come ho detto che non avrei fatto un esecutivo a tutti i costi, così oggi ti dico che non andrò avanti a tutti i costi.”
Nel pulmino che porta i ministri al ritiro di Sarteano, Enrico Letta ha usato queste parole per esprimere il suo disappunto nei confronti della manifestazione del Pdl contro i giudici.

Essere pronti a mollare tutto è un’argomentazione che ha la sua efficacia. Porta chi la pronuncia a conquistare una condizione di felicità del dire, di vantaggio, di autorevolezza in uno specifico contesto. C’è però un effetto collaterale: il rischio di dover mollare tutto.

“La minore, extracomunitaria, persona – lo ripeto – intelligente, furba, di quella furbizia proprio orientale…”
Nella requisitoria nel corso del processo Ruby, Ilda Boccassini ha definito in questo modo quella che al tempo era una ragazzina, perché una diciassettenne è sempre una ragazzina. È stata una gaffe, non ci sono dubbi. Ma la Boccassini ha perso autorevolezza, felicità del dire.

Parole felici e parole infelici. Il dire non è mai neutro. O meglio lo è se è insapore e inodore, come quando “si auspica il dovuto dialogo”. Con l’auspicio del dovuto dialogo non si sbaglia mai, ma si dice poco o niente.

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