Il potere delle donne ha un suo linguaggio specifico? È una domanda che rimane aperta, malgrado la fiorente letteratura sul tema e un saltuario interesse dei media alimentato dalla cronaca sociale e politica.
La repubblica di oggi riporta un articolo del premio Nobel Aung San Suu Kyi, eletta al parlamento birmano dopo anni di lotta alla dittatura militare del suo Paese.
Due gli elementi tipicamente femminili che emergono: la narrazione per eventi e il valore profondo attribuito alla bellezza esteriore che non ha nulla a che vedere con la vanità.
Cominciamo dalla narrazione per eventi. Suu Kyi racconta delle condizioni di vita di molte delle donne birmane:
«[…] ci sono alcune donne che fanno lavori molto pesanti: riparano il ciglio della strada, e il pensiero mi rattrista per la terribile fatica cui esse sono sottoposte quando devono rompere le pietre».
Per illustrare la gravità di questa condizione Suu Kyi racconta un evento che, senza troppe parole, colpisce con la forza delle sue immagini:
«Ho impressa negli occhi l’immagine, indimenticabile, di una bambina: era inverno, il freddo era intenso e lei aveva le guance arrossate, e sotto le sopracciglia bellissimi occhi come piccoli fiori. Giocava di fianco alla madre, che lavorava riparando il ciglio della strada, e la polvere e la terra le entravano in bocca».
Ora la bellezza. Aung San Suu Kyi continua il suo racconto.
«Quelle lavoratrici indossano camicie a maniche lunghe e si riparano dal sole, cercando di proteggere la propria bellezza. Si spalmano sulla faccia la Tanaka (crema curativa birmana ndr) poi avvolgono un tessuto sul viso, e sulla testa calcano un cappello. Tutto questo impegno nel salvaguardare la loro bellezza mi sorprende ancora di più.»
Suu Kyi sottolinea come preservare il proprio aspetto esteriore sia un fatto identitario, un impegno per salvaguardare la propria dignità, anche in condizioni di vita e di lavoro estreme e tutt’altro che dignitose. La bellezza salva la persona. Non vanità, dunque, ma slancio vitale.
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