domenica 16 settembre 2012

Matteo Renzi, a Verona, non ha paura di sbagliare il calcio di rigore


Renzi, il profeta del “nuovo”, ha pronunciato a Verona il discorso della discesa in campo. Ha parlato in maniche di camicia, dietro a un podio con la scritta «ADESSO!», lo slogan scelto per accompagnare la corsa alla premiership.

L’allocuzione ha un’impalcatura retorica e narrativa tutt’altro che casuale, malgrado Renzi dichiari di averla preparata all’ultimo momento:

«Ho scritto il discorso dopo aver messo a letto i bambini. […] Per una volta, volevo scriverlo l’intervento.»

Bill Clinton non ha fatto mistero di aver impiegato tutta l’estate per scrivere, riscrivere e limare il suo intervento alla Convention del partito democratico di Charlotte (post del 6 settembre); Steve Jobs provava le sue presentazioni decine di volte, prima di infilarsi il maglioncino nero e i Levi’s e salire sul palco. Malgrado questi precedenti, Renzi sceglie di ostentare disinvoltura nell’affrontare un compito tutt’altro che semplice. Dimostrare naturalezza nel fare cose difficili è una “sprezzatura”. Ne sono maestre le ballerine o le atlete del nuoto sincronizzato che sorridono apparentemente beate, mentre fanno una fatica nera nell’eseguire coreografie massacranti. Baldesar Castiglione ne Il libro del cortegiano teorizza questa abilità: «per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia» (Castiglione, 1965, orig. 1528).

L’intero discorso di Verona prende spunto da un video che ripercorre gli ultimi 25 anni della nostra storia. Sembra un innocuo amarcord, ma non lo è. Il trentasettenne Renzi sta armando i cannoni per assestare un paio di bordate ai danni del nemico numero uno: il “vecchio”, riferito ai rottamabili Bersani, D’Alema, Berlusconi e alle altrettanto rottamabili correnti e correntine di partito.

«Loro [i miei figli] farebbero fatica anche a credere che 25 anni fa stavamo senza telefonino.»

Ed ecco che arriva la prima bordata, condita di sarcasmo:

«Se guardo a 25 anni fa, persino i loghi e i nomi dei partiti erano completamente diversi. I leader no. Sono rimasti gli stessi per farci un servizio, per darci la certezza di qualche punto di riferimento in una cornice che cambia [applauso]». Boom.

Il colpo è apparentemente (ma solo apparentemente) attenuato da un’affermazione che contiene un espediente super classico della retorica: la preterizione.

«Oggi noi siamo qui non per parlare dei leader di allora. Siamo qui per puntare il compasso e per girarlo dall’altra parte.»

Non è lì per parlarne, ma ne parla eccome! Anzi, è proprio questo l’oggetto del discorso; è esattamente questo il “posizionamento” (come lo chiamano gli esperti di marketing) del candidato premier Matteo Renzi che sfida i fossili della politica, invitandoli cordialmente a togliersi dai piedi. La preterizione, vi ricordate? L’abbiamo studiata a scuola. È una figura che consiste nel dichiarare che si ometterà di parlare di qualcosa o qualcuno, per poi in realtà parlarne. Nel Canzoniere Petrarca scrive “Cesare taccio che per ogni piaggia/fece l’erbe sanguigne/di lor vene, ove il nostro ferro mise”. (Il poeta si riferiva alle battaglie di Cesare contro i barbari, Italia mia, ben che il parlar sia indarno, Il Canzoniere, 1374).

Malgrado la dichiarazione di voler evitare di parlare dei vecchi politici, Renzi insiste lanciando una seconda bordata. Ari-boom:

«Possiamo candidarci senza portare la giustificazione. Siamo gli unici che non devono portare la giustificazione, raccontare cosa hanno fatto in questi ultimi 25 anni. Perché, mentre loro erano in Parlamento, noi andavamo all’asilo. Mentre loro erano in Parlamento noi cercavamo di combattere contro un sistema educativo, quello scolastico, che, a parole, è sempre stato la centralità del Paese e che, in realtà, è sempre stato considerato ai margini di un investimento educativo, se non dai Comuni. […] Lo Stato ha troppo spesso perduto delle occasioni. Pensate a quanto poteva essere diversa l’Italia se, in questi 25 anni, avessimo avuto la forza e l’intelligenza di scommettere su un’economia della conoscenza basata sul capitale umano [applauso].»

Renzi conclude l’intemerata con una seconda preterizione dal tono biblico (Ecclesiaste 3, vedi il post del 12 settembre):

«Ma non è il tempo del rimpianto e della nostalgia. È il tempo della costruzione.»

Il tempo della costruzione è in seguito sintetizzato da tre parole, che assumono il valore di uno slogan:

«Futuro, Europa, merito.»

Nel corso del suo intervento, Renzi ricorda più volte la sua capacità pratica e la sua lontananza dalle “vecchie” logiche di Palazzo. Per sottolineare il concetto usa diversi espedienti dell’arte del dire. Tra questi, la metafora – secondo me felice - del “pianeta delle chiacchiere”:

«Noi, signori, non veniamo dal pianeta delle chiacchiere. Siamo sindaci, siamo amministratori.»

Il concetto è sottolineato anche dall’associazione della parola “Italia” con i nomi propri di cittadini che la abitano, dei quali Renzi racconta gli aneddoti da esperto story teller. Un paio di esempi:

«Questa è l’Italia che si trova davanti al Bivio Teresa, che è una ragazza che fa l’avvocatessa a Bari… mamma di due figli. Decide di lasciare la professione per mettersi in gioco come insegnante. Va a fare il proprio test e vede, come tanti altri, che i test sono tutti sbagliati […]. È l’Italia di Carla che, al termine di una festa democratica […], mi dice: “io non ho paura del merito – è un’impiegata pubblica – dammelo il merito, ma dammelo davvero il merito. Non mettermi un principio di merito e poi il mio dirigente dà a tutti le stesse valutazioni, così non si rompe le scatole e non si mette in discussione”.»

Matteo Renzi afferma la sua visione politica ispirata alla collaborazione, riferendosi esplicitamente ai “Mobama”, la macchina da guerra politica formata da Barack e Michelle.

«Io non credo che il modello culturale della politica sia il “ghe pensi mi”: “lasciate fare a me”. Io ho avuto successo nella vita, io risolverò i problemi degli altri. Il modello è quello del “tocca a noi”, non del “ghe pensi mi”. Il vero successo – ha detto Michelle Obama alla convention dei democratici a Charlotte […] – il vero successo non è quanti soldi hai fatto. Il vero successo è riuscire a fare la differenza nella vita degli altri.»

L’allusione, non troppo velata, riporta allo storico discorso che, nel 1994, ha segnato la discesa in campo di Berlusconi: «Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare.»

Tra le tante metafore usate da Renzi non manca quella calcistica, della quale di serve nella fase conclusiva del discorso:

«Spero che mio figlio, tra qualche anno, comunque vada questa sfida, sappia che suo padre non ha avuto paura di vivere una sfida controvento e spero che sappia che nella vita di tutti noi arriva un momento il cui il vero rischio è non tirare il calcio di rigore, non sbagliarlo, il vero rischio è restare in panchina.»

“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore”, cantava De Gregori. Ma Matteo non ha paura.

 

Guarda il video.

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