Chi mi conosce lo sa. Ogni volta che mi arriva l’e-mail del commercialista con le tasse da pagare si svolge il seguente orrido copione: pronuncio parolacce da osteria, mi maledico per non aver messo niente da parte, spendo qualche lacrimuccia, chiamo gli amici per lamentarmi e cercare comprensione (poveretti!) e mi metto a letto con le coperte fino agli occhi.
Malgrado questo atteggiamento tutt’altro che dignitoso, sono convinta che pagare le tasse sia una buona cosa. Ti permette di mandare i figli a scuola e di avere un medico che ti sta a sentire quando stai male. Chi non paga le tasse fa tutto questo a spese degli altri.
Ma veniamo agli aspetti linguistici. Gli evasori fiscali, tornati in auge in occasione della recente crisi economica, vengono spesso definiti “furbetti”. L’aggettivo è entrato prepotentemente nel nostro linguaggio, dopo essere stato utilizzato da Stefano Ricucci nel 2005, con riferimento alle banche estere che tentavano la scalata alle banche italiane.
La parola mi sembra riduttiva, perché può nascondere una vena di indulgenza. Per creare una reale e diffusa condanna sociale del fenomeno bisognerebbe chiamare gli evasori con termini più precisi: o “ladri” o “parassiti”. Inutile girarci intorno.
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