venerdì 29 ottobre 2010

Il bunga bunga di Berlusconi e il materiale genetico di Clinton

1998-2010: gli anni passano ma l’eufemismo è sempre di moda. Ricompare su tutti i media con l’espressione «bunga bunga», riferita alle pratiche sessuali che, secondo le dichiarazioni della testimone diciassettene Ruby, si sarebbero tenute nella villa di Berlusconi ad Arcore.
L’eufemismo (dal greco eu = bene e phēmì = dico) è una figura molto frequente per dire senza dire, con l’obiettivo di evitare di offendere sensibilità e oltraggiare l’altrui senso del pudore.
Lo scandalo Clinton-Lewinsky del 1998 ci ha offerto una sorprendente collezione di salti mortali linguistici per definire lo sperma presidenziale, che aveva macchiato il tailleur della stagista Monica. Eccone una selezione: «fluido corporeo», «materiale genetico» o, in modo ancora più vago, alcuni parlarono di «indizi che farebbero supporre l’esistenza di un contatto sessuale».
Bunga bunga sembra derivi da una barzelletta cara al premier. La freddura recita, più o meno, così: due ministri del governo Prodi vengono catturati da una tribù africana. Il capo tribù pone un’alternativa ai due malcapitati: morire o bunga bunga. Il primo ministro sceglie per la soluzione bunga bunga e viene violentato; il secondo sceglie di morire. Ma il capo tribù dice: «prima bunga bunga, poi morire».
La barzelletta era, in origine, un componimento popolare in metrica accompagnato dalla musica.

(discorsi potenti)

giovedì 28 ottobre 2010

Capezzone e Vucinic: l’epiteto amplifica lo sdegno e rende eroi

Esprimere indignazione richiede una buona dose di retorica. È il caso delle dimostrazioni di solidarietà bipartisan indirizzate al portavoce del Pdl Daniele Capezzone, colpito dal pugno di un aggressore sconosciuto il 26 ottobre a Roma.
Due esempi tra tanti.
Maurizio Lupi, vice presidente della Camera, esprime «solidarietà per il grave e ignobile atto».
Dario Franceschini, a nome del Pd, parla di «ignobile aggressione».
Gli aggettivi «grave» e «ignobile» intendono rendere vivo il sentimento di indignazione. Sono una patente che certifica l’autenticità delle emozioni di chi prova lo sdegno.
Le espressioni di Lupi e Franceschini hanno, tuttavia, un altro elemento in comune: sono entrambe antiche. L’aggettivo prima del nome ha un sapore arcaico, che ci porta nella sfera dell’epica. Una sfera nella quale il protagonista della vicenda è l’eroe (Capezzone) e l’antagonista è l’anti-eroe (l’aggressore).
Gli epiteti sono aggettivi ornamentali, spesso posti prima del sostantivo. Ne sono un esempio modi di dire vetusti come «l’ampio petto» o «il pallido volto». Un esempio nobile è la «pargoletta mano» della poesia Pianto antico di Carducci (1887).
Ma gli epiteti non sono solo dominio della politica e della letteratura. Qui abbiamo un bell’esempio da Il Romanista che fa rivivere le “gesta” del calciatore Mirko Vucinic: «Era il 2006, Mirko fece i bagagli in un caldo giorno d’estate: era arrivato nel 2000, scelto personalmente da Pantaleo Corvino che era andato a vederlo in Montenegro già quando aveva 16 anni». (27 ottobre 2010).

(discorsi potenti)

venerdì 22 ottobre 2010

La paronomasia di Saviano non è una malattia

Tg La7, 19 ottobre 2010
Roberto Saviano, intervistato da Mentana nel Tg de La7, commenta crucciato le polemiche nate su Vieni via con me, programma Tv che sta preparando con Fabio Fazio.
Il programma, che partirà l’8 novembre, affronterà temi “caldi” come le diffamazioni mediatiche, la villa di Berlusconi ad Antigua, il ritorno della munnezza a Napoli.
Lo scrittore si dice consapevole di proporre un prodotto televisivo dissonante rispetto ai palinsesti di Rai e Mediaset, ma ne sostiene la capacità di interessare e appassionare un pubblico ampio, di età e orientamenti politici diversi. La tesi è: il racconto dei fatti e dei retroscena dell’attualità è interessante almeno quanto i reality show.
Questa argomentazione è sintetizzata in modo efficace con la paronomasia, figura retorica che prevede una sequenza di parole che si somigliano per il suono, ma hanno significato diverso.
Ecco la paronomasia di Saviano:
«la realtà è più forte del reality»

Questa una paronomasia usata dal poeta Camillo Sbarbaro:
«Talor, mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei occhi chiari il mondo
ove tutto m'appar come fraterno,
l'aria la luce il fil d'erba l'insetto,
un improvviso gelo al cor mi coglie.»
(Camillo Sbarbaro, Pianissimo, 1914)

Il predellino e la sineddoche, il trampolino e la metafora

Dicembre 2007-ottobre 2010

L’espressione «partito del predellino» si riferisce all’estemporanea creazione del partito unico del centro-destra, il Popolo della Libertà, da parte di un Silvio Berlusconi dritto in piedi sul predellino della sua auto. L’annuncio avviene il 18 novembre 2007 a piazza San Babila a Milano.
Un’interessante forma linguistica. Ma a quale figura retorica corrisponde? A una sineddoche, direi.
La sineddoche consente di trasferire “il significato di una parola a un’altra in base a un rapporto di contiguità*”.
E il «trampolino» del famoso patto proposto il 16 ottobre 2010 dal Ministro Calderoli? L’espressione si riferisce all’esigenza di un nuovo accordo tra Berlusconi, Fini e Bossi, con l’obiettivo di evitare di andare al voto. Il trampolino non è una sineddoche ma una metafora. Nel primo caso, infatti, si designa un evento politico attraverso un oggetto fisico - il predellino dell’auto - che è stato parte della scenografia in cui l’evento ha avuto luogo. Nel secondo caso, invece, si fa riferimento a un concetto evocatore: la necessità di rilanciare un’alleanza che è inciampata in divergenze di vedute e battibecchi.
La metafora è senza dubbio la più conosciuta tra le figure retoriche (l’unica conosciuta, spesso). Attraverso la metafora viene ridefinito un oggetto, utilizzandone un altro con il quale il primo condivide uno o più tratti semantici. Un esempio: “Capelli biondi che ricordano il colore giallo dell’oro” diventano “capelli d’oro”, anche se quei capelli non sono di metallo.

*Marchese A. (1990), Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori, Milano.

giovedì 21 ottobre 2010

Vendola: tra i due litiganti l’excusatio gode

Nichi Vendola, intervistato da Umberto Rosso per La repubblica (21 settembre 2010), commenta il confronto-scontro tra Bersani e Veltroni - attuale ed ex segretario del Pd - per la leadership del partito. Lo fa con una dichiarazione esplicita della propria inferiorità, excusatio propter infirmitatem, che diventa paradosso, una figura retorica che intende rivelare una realtà contraria all’opinione comunemente diffusa (pará = contrario; dóksa = opinione).
L’excusatio di Vendola, ricorre tre volte in poche righe:
«Il centro-sinistra puzza di naftalina, ha bisogno di prendere aria. […] Perciò chiedo scusa ai sofisti e ai sapienti della politica se non mi capiscono: la colpa è senz’altro mia. […] Non sono un grande esperto di politica, come è notoSarà per questo che non riesco a capire la natura dello scontro tra Bersani e Veltroni, è preoccupante la disputa tra le persone quando non è chiara la sostanza politica del contendere.

Domanda: Sta dicendo che lo scontro fra segretario ed ex segretario del Pd è tutto personale?
Il riverbero di antiche contese di certo c’è. Ma, ripeto, io non ho strumenti, non capisco.»
Il paradosso è nella dichiarazione di un politico di professione che sostiene di avere problemi nel comprendere la politica. Sarebbe come un idraulico che confessa di non intendersi granché di rubinetti. Chiaramente non è così, nel caso di Vendola (e nemmeno nel caso dell’idraulico, si spera). È evidente, invece, la non sottile ironia.
Tornando alla excusatio propter infirmitatem, ecco un precedente illustre. De Gasperi, alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1946, inizia il suo discorso con un’excusatio:
«Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e sopratutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.»

lunedì 18 ottobre 2010

Fini, la Bibbia e Luther king a Mirabello

Fini, Mirabello, 5 settembre 2010
Pieno di spunti il discorso di Fini a Mirabello. Il presidente della Camera parla a braccio, l’atmosfera è calda, il piglio è biblico:

«È arrivato il tempo di dare vita a una sintesi, a un nuovo patto tra capitale e lavoro: significa mettere i produttori di ricchezza dalla stessa parte della barricata. Una proposta che feci in occasione di quella direzione nazionale e che è caduta nel nulla, è una riforma del mondo del lavoro.»

L'incipit ricorda:
«Ora è tempo di agire, perché il Signore ha parlato e ha detto: "Per mezzo di Davide, mio servo, io salverò il mio popolo Israele dalle mani dei Filistei e da quelle di tutti i suoi nemici"» (Samuele 3:18)


Nei discorsi politici i riferimenti volontari e involontari alla Bibbia sono numerosi. Eccone un esempio autorevole nel celebre I have a dream di Luther King:
«Ora è il tempo di rendere reali le promesse della democrazia. Ora è il tempo di sollevarsi dalla scura e desolata valle della segregazione, per percorrere il sentiero assolato della giustizia razziale. Ora è il tempo di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili della ingiustizia razziale, portandola verso il terreno solido della fratellanza. Ora è il tempo di rendere la giustizia una realtà per tutti i figli di Dio.»
(Ho un sogno, marcia su Washington per il lavoro e la libertà, Lincoln Memorial, 28 agosto 1963)

Berlusconi è uomo di spirito e Bruto è uomo d’onore

Fini, Mirabello, 5 settembre 2010
Ancora Fini, ancora Mirabello (5 settembre 2010). C’è ironia nell’aria che diventa vero e proprio sarcasmo. L’ironia è una figura retorica attraverso la quale si dice l’opposto di quello che s’intende. Quando l’ironia diventa tagliente e rancorosa siamo nel campo del sarcasmo. Fini a Mirabello scaglia frecce di sarcasmo al suo ex amico Berlusconi. Lo fa, in particolare, anche in un inciso, come Marco Antonio nel celebre discorso pronunciato in onore di Cesare, assassinato da Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare.
Ecco Fini:


«[…] si va avanti con le nostre idee, con il nostro impegno, con la nostra elaborazione politica. Non ci ritiriamo in convento né erriamo raminghi in attesa del perdono. I gruppi parlamentari non possono essere trattati – Berlusconi è un uomo di spirito e non se la prenderà – come se fossero dei clienti della Standa, che se cambiano il supermercato dove fino a quel momento si sono serviti ottengono poi il premio di fedeltà. I parlamentari che stanno con noi hanno voglia di far politica, di parlare con la gente. Si va avanti con le nostre idee, con le nostre proposte, si va avanti senza farci intimidire da quello che è stato definito il “metodo Boffo”, messo in campo nell’ultimo mese da alcuni giornali che dovrebbero essere il biglietto da visita del cosiddetto partito dell’amore. E se questo è l’andazzo, immaginate se non erano amorevoli cosa poteva succedere.»
Ecco Marco Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare:
[Bruto giustifica di fronte ai romani l’omicidio di Cesare, dicendo che l’imperatore era troppo ambizioso e, di conseguenza, dannoso per Roma] «Il nobile Bruto v'ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Bruto e degli altri - ché Bruto è uomo d'onore; così sono tutti, tutti uomini d'onore - io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è uomo d'onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cesare? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l'ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa, eppure Bruto dice ch'egli fu ambizioso, e Bruto è uomo d'onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch'egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice ch'egli fu ambizioso; e, invero, Bruto è uomo d'onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi, il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere sinché non ritorni a me.»
William Shakespeare, Giulio Cesare, 1599.

La profezia di Fini: «il Pdl non c’è più»

Fini, Mirabello, 5 settembre 2010
Gianfranco Fini a Mirabello sceglie uno stile profetico: constata l’ora del decesso di un Pdl che non è affatto morto. È una precisa strategia retorica per minare le fondamenta di un partito che, il 29 luglio 2010, lo ha espulso per diversità di vedute. Questo il meccanismo linguistico: si dà per scontato l’epilogo sfavorevole della storia del proprio avversario per indebolirlo e orientarne il futuro in senso negativo. Ricordiamo che nel Vecchio Testamento la funzione del profeta non è solamente la predizione di un futuro, ma anche l’attestazione di una verità – data per assodata e assoluta - che inevitabilmente prepara un futuro.

«Il Pdl, come lo avevamo concepito e voluto, è finito il 29 luglio perché è venuta meno la volontà di dar vita a quel confronto di idee che è il sale della democrazia. Il Pdl non c’è più, ora c’è il partito del predellino. Per certi aspetti il Pdl è Forza Italia che si è allargata con qualche colonnello o capitano che ha soltanto cambiato generale e magari è pronto a cambiarlo ancora. E il fatto che il Pdl non c’è più è la ragione per la quale è facile rispondere alla domanda: cosa accadrà? Ed è molto più facile rispondere se si ragiona, piuttosto che se ci si fa prendere dai desideri o dalle paure. Fli non può rientrare in ciò che non c’è più, non accadrà. Non si entra in ciò che non c’è più […].»