Ci hanno insegnato a scuola e in famiglia che, per ottenere i posti di potere o per entrare in certi salotti, bisognava almeno parlare italiano. Ci hanno detto una bugia.
Per essere al vertice del potere bisogna parlare il lavitolese, un burinese che mescola il vernacolo dei “senti a me”, il turpiloquio dei cazzo-merda-inculare-con-il-trapano (addirittura!), le tecniche da imbonitore del chiamare tutti “Amo’”, il passepartout per farsi ascoltare e rispettare del “me lo ha detto Lui”.
Oggi Francesco Merlo su La Repubblica ci offre un glossario ricco e argomentato.
Impariamolo a memoria, se intendiamo fare carriera. Basta con il vocabolario della lingua italiana, basta con le letture formative per imparare a parlare meglio, basta con l’autocontrollo sulle espressioni dialettali.
Il potere ha la sua grammatica sgrammaticata. Saper scegliere un vino per una cena è più importante di conoscere il congiuntivo: il culto della relazione ha sopravanzato il rispetto per uno straccio di cultura. Accettiamolo e adeguiamoci, se vogliamo sopravvivere.
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