Oggi La Repubblica ha pubblicato un’intervista a un anonimo black bloc che, il 15 ottobre, ha dato il suo gagliardo contributo alla devastazione del centro di Roma.
L’intervista è un manualetto di guerrilla urbana. Illustra le tecniche usate per mettere a soqquadro la città, evitando i controlli delle forze dell’ordine.
Per iniziare un’argomentazione classica:
«Poteva esserci il morto in piazza? Perché quanti morti fa ogni giorno questo Sistema? Chi sono gli assassini delle operaie di Barletta?»
È l’argomentazione del bambino di quattro anni: “ha cominciato lui!”. Ammesso che i morti siano prodotto del Sistema (ma di quale Sistema?), che senso ha aggiungere dolore a dolore?
Interessanti le parole usate. Il nemico è un’entità definita con termini generici:
«[La guerra] non l’ho dichiarata io. L’hanno dichiarata loro.»
«Ma loro chi?» chiedono Bonini e Foschini, gli intervistatori.
«Non discuto di politica con due giornalisti.»
I gruppi armati sono “falangi”, un termine storico che ricorda il mondo ellenico ed etrusco e aggiunge un certo fascino epico alla vicenda.
Le intenzioni belliche vengono, invece, definite in modo puntuale:
«I primi 500 si sono armati a inizio manifestazione e avevano il compito di devastare via Cavour». Devastare.
«Parlo come uno che è in guerra». Guerra.
L’intervista si conclude con un enunciato, che Searle farebbe rientrare nella classe degli atti linguistici illocutivi “commissivi”: «E vi do una notizia. Non è finita». In altre parole, una minaccia.
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