In questi giorni i cittadini di Roma e i turisti hanno visto in città numerosi poster con l’immagine di Karol Wojtyla, che sarà beatificato 1° maggio. I cartelli riportano una frase in dialetto romanesco pronunciata dal papa il 26 febbraio 2004 in Vaticano. Rivolto ai parroci e ai preti della città, un Wojtyla dalla voce provata dalla malattia e dall’età ha detto:
«Volemose bene, semo romani. Non ho imparato romanesco, vuol dire che non sono buon vescovo di Roma»
La battuta è stata la reazione estemporanea e fuori programma a un interevento di un parroco che sottolineava le capacità poliglotte del papa e la sua abitudine di salutare i pellegrini in tutte le lingue.
Dal punto di vista tecnico definirei l’uso del dialetto da parte di un pontefice una raffinata captatio benevolentiae (vedi post precedente su Obama), per l’effetto di piazzamento che produce in un contesto alto e formale. Un monito agli imitatori, però, Wojtyla poteva permetterselo, voi no.
Dal punto di vista della comunicazione direi che questa è una delle tante prove del fatto che Wojtyla debba essere studiato, perché abbiamo tutti molto da imparare.
Dal punto di vista umano direi che Giovanna Paolo II sapeva come scaldare l’atmosfera.
Che c’è da di’. Era er mejo.
Un grande comunicatore. L'altra sera ho visto sulla RAI il programma la grande storia tutto dedicato a Giovanni Paolo II. Sapeva parlare ed era anche un grande politico.
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